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Una nuova pagina del DIARIO DELL'UMANITA' (perduta)

  • Daniela Mastracci
  • 10 ago 2018
  • Tempo di lettura: 4 min

Cosa è la leggerezza ai tempi del cestino sul desktop? Non parlo del desktop del nostro PC. Parlo di noi stessi come un desktop, dove occhieggia ammiccante il cestino. Noi che sappiamo ogni cosa in tempo reale. Noi che possiamo accedere ad ogni informazione. Noi, cui nulla del mondo può sfuggire, soltanto che siamo connessi, navighiamo, ci informiamo. Noi che, non solo connessi, ma viventi momento per momento facciamo esperienza, anche diretta, del mondo: noi che ci muoviamo nel mondo, che lavoriamo, che viaggiamo, che facciamo i turisti ovunque, che ovunque è mondo alla nostra portata. Certo diventa enorme la quantità di informazioni! Certo può accadere un sovraccarico. Possiamo andare, come si dice, in overloading.

E allora che si fa? Come fugare l'overloading? Come tornare ad uno stato di normale quantità gestibile? Ecco che occhieggia ammiccante il cestino! Possiamo gettare là. Abbiamo ciascuno la nostra brava raccolta differenziata! Ciò che ci piace e ci allieta, in qualche modo, lo conserviamo nelle nostre cartelle, nei drive, ormai... Ma abbiamo la indubbiamente felice possibilità, di cestinare ciò che non ci allieta, ciò che non ci piace: come quando ci facciamo mille selfie per trovare la foto a nostro dire migliore, e le altre, pur raffiguranti le nostre facce, non ci gustano e le gettiamo via, le eliminiamo. Possiamo. Dunque perché non farlo? Che poi ciò significhi eliminare cmq noi stessi, poco importa, tanto sono quelle brutte foto che è meglio dimenticare in fretta, anzi! Fare come se non le avessimo mai scattate. Dunque il cestino ci viene subito in soccorso: ci salva da brutti ricordi, da inutili sofferenze, da spiacevoli incontri, da dolorose esperienze, da informazioni che ci rovinano la giornata.

Perché anche le informazioni si possono cestinare. E lì non ho a che fare con le espressioni del mio volto che non mi piacciono, e perciò elimino. No, lì ho a che fare con i volti di altri, con le vite di altri, che incrocio, perché essere connessi vuol dire anche questo, perché incontro, perché viaggiare vuol dire anche questo. È sì! Non posso fare a meno di vedere. Né di sentire. Né di provare gusto o disgusto. Felice attrattività. Infausta repulsione. E ciò che mi produce repulsione è sicuramente ciò che mette a rischio la mia stabilità emotiva, la mia stabile sicurezza, la mia stabile vita di navigante internettiano, di benestante viaggiatore.

Ma come? La vita mi fa incrociare il dolore? Ho il mondo intero a disposizione, posso sapere tutto, il mondo è fatto come è fatta la mia vita di occidentale benestante (questo mi si fa credere!), eppure mi tocca vedere queste immagini ignominiose? Perché la vedo la ignominia! Perché ancora sono capace di vederla. Ancora mi inquieta. Ancora mi interpella. Ma ho modo di arrestare l'inquietudine, di aggirare la domanda, ho modo di comportarmi come se quella domanda non fosse mai esistita: posso eliminarla! Posso cestinarla! E liberare spazio. Liberare dalla mente ciò che la mente turberebbe.

Nelle milioni di informazioni, nelle centinaia e migliaia di esperienze possibili, noi abbiamo immesso l'esperienza di annullare le esperienze: abbiamo lottato contro il tempo lineare, quello che non torna indietro, mai, e abbiamo prodotto la macchina del tempo che indietro torna, eccome! Torna e cancella. E la forza primordiale del togliere dalla vita la sofferenza è così grande che, potenziata dal clik del cestino, può davvero fare come se nulla fosse mai accaduto: può fare come se anche l'atto del cestinare non fosse mai accaduto, veloce, "indolore", così ovvio da essere insignificante. E il gioco è fatto: ho visto ragazzi perduti sotto i cavalcavia della metro? Li ho visti attaccati al collo di bottiglie di birra, una dopo l'altra? A tutte le ore del giorno? Passo oltre. Cancello. Dimentico.

Non mi riguarda. Ho la memoria come un archivio: ho la libertà di archiviare, ma ancor di più di non archiviare, eliminare. Navigando vedo bambini sfruttati fino all'estremo delle loro povere forze? Li vedo lavorare in tuguri sporchi e bui per produrre vestiti che comprerò nei grandi stores occidentali? Soffermarsi su tale schiaffo alla mia vita di benestante occidentale, la scuoterebbe fin nelle fondamenta? Corro questo rischio? Posso non correrlo. Posso passare oltre. Le informazioni non mancano. E ne trovo quante ne voglio che, al contrario, confermino la mia vita da occidentale benestante, la mia vita da sogno, da denaro da spendere, perché onestamente guadagnato, sudato, in tanti casi, denaro che mi legittima ad acquistare qualunque cosa, ad ampliare la ricchezza delle mie giornate, l'orizzonte dei miei desiderata...

Non c'è né spazio e né tempo per interrogarsi: è troppo pericoloso. Questa è la nuova morte. E questa si teme più d'ogni altra. Perdere la terra sotto i nostri piedi, perdere, in realtà, un ben sottile strato di terra finta, di coltre, di velo di Maya; perdere l'apparenza della verità che fermamente vogliamo credere, cui fermamente vogliamo tenerci aggrappati, è fuori dal campo delle ipotesi, nemmeno sfiorata. Perché sarebbe la fine. Sarebbe la morte. Eppure affrontare quella morte sarebbe liberatorio, e soprattutto salvifico da una coltre fatta di ipocrisia, che avvertiamo, mi pare, e proprio perciò ce ne difendiamo strenuamente.

Lottiamo contro noi stessi, preferendo non vedere, lasciando cadere, cestinando. Leggerezza? Oppure l'apice invitto del senso di colpa? Che lascia noi vuoti, sempre da riempire e sempre da svuotare. La coscienza vuota, però, non è forse la più infelice?

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